Onorevoli Colleghi! - I flussi migratori verso l'Europa e l'Italia non sono un fenomeno eccezionale, né tantomeno inspiegabile, e interessano in modo abbastanza omogeneo ogni Paese sviluppato, coinvolgendo tutti i settori delle nostre complesse società. Siamo di fronte a un fenomeno che non può certo essere più definito «transitorio». Negli ultimi quarant'anni è, infatti, praticamente raddoppiato il dato relativo alle persone che lasciano il proprio Paese per andare a vivere, per sempre o per periodi più o meno lunghi, in altre regioni del mondo. E sempre di più sono le occasioni sociali, dalla scuola al lavoro, in cui ci si confronta con persone che hanno culture diverse. I fattori che alimentano le migrazioni sono vari e complessi, ma sostanzialmente sono riconducibili alle profonde disuguaglianze in termini di ricchezza, di giustizia sociale, di accesso agli standard minimi relativi ai diritti umani, alle guerre (comprese quelle «dimenticate») e a una globalizzazione disattenta all'impatto devastante che alcuni meccanismi importati possono avere sui Paesi in via di sviluppo. L'Italia, in particolare, da Paese di emigrazione è diventata meta di immigrazione: sono quasi tre milioni gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, il 4,8 per cento della media europea, e di loro circa il 30 per cento risiede stabilmente sul nostro territorio da oltre cinque anni.

 

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Gli anni appena trascorsi hanno dimostrato il fallimento delle politiche sull'immigrazione che hanno trovato la loro massima espressione nella cosiddetta «legge Bossi-Fini». La cultura dell'intolleranza e della repressione fine a se stessa, incentrata sulla bruta equivalenza «immigrato-forza lavoro», si è dimostrata fondamentalmente demagogica e priva di robustezza. I flussi di ingresso non sono affatto diminuiti, ma gli stranieri, in compenso, sono stati confinati in una condizione di precarietà e di soggezione intollerabili, che, oltre ad essere profondamente lesiva della dignità e dei diritti della persona, è totalmente controproducente ai fini della «gestione» delle politiche sull'immigrazione.
      Ritengo dunque sia maturo storicamente affrontare anche la questione dei diritti politici degli stranieri extracomunitari residenti in Italia. Senza rigore nel contrastare criminalità e clandestinità non possono darsi autentiche accoglienza e costruzione armoniosa della società multietnica. Ma senza strumenti di integrazione la stessa lotta alla criminalità diventa insufficiente e improduttiva.
      La questione della convivenza tra persone diverse per lingua, religione, etnia, costumi e cittadinanza è uno dei nodi centrali per il superamento degli squilibri planetari, per il progresso dei popoli nella solidarietà, per la stessa civile convivenza in Europa e in Italia.
      Sono note le condizioni di vita e di lavoro in cui operano molti degli immigrati nel nostro Paese.
      Per essi una politica di integrazione non può essere disgiunta dalle più generali conquiste sociali, nei rapporti di lavoro, nell'assistenza, nella tutela della previdenza e della salute, nel diritto alla casa, in grado di sconfiggere la povertà e l'emarginazione anche di tanti nostri cittadini.
      La premessa per una compiuta partecipazione dei lavoratori extracomunitari al processo di universale emancipazione dalle condizioni che ostacolano il pieno sviluppo della persona è rappresentata dalla garanzia costituzionale anche per loro delle libertà e dei diritti politici.
      Non ignoro che possano consolidarsi resistenze culturali, sociali, politiche e psicologiche per arrestare questo processo.
      In parte, però, l'estensione a tutti coloro che risiedono nel territorio nazionale della libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione), della libertà di associazione (articolo 18 della Costituzione), della libertà di associarsi in partiti politici (articolo 49 della Costituzione) è già penetrata nella coscienza degli italiani, che avvertono come storicamente superata la distinzione, nella Carta costituzionale, fra diritti e libertà fondamentali riconosciuti ad ogni persona (articolo 2: garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo; articoli 13, 14 e 15: inviolabilità della libertà personale, del domicilio, della corrispondenza; articolo 21: libertà di manifestazione del pensiero; articoli 24 e 25: diritto di agire in giudizio, diritto di difesa, diritto al giudice naturale) e diritti e libertà, pure essi di carattere primario e universale, riservati formalmente soltanto ai cittadini.
      Pertanto la revisione della formulazione di alcune disposizioni costituzionali segna la consacrazione, anche formale, nella Suprema Carta dello Stato, di diritti già accolti nell'ordinamento e di fatto già esercitati.
      È comunque opportuna la loro solenne proclamazione come princìpi irreversibili e dunque patrimonio consolidato di una civiltà giuridica che non tollera restringimenti degli spazi di libertà della persona, a prescindere dalla cittadinanza.
      La più delicata e complessa questione dei diritti politici di elettorato attivo e passivo deve essere affrontata nella consapevolezza che la previsione del riconoscimento agli immigrati stabilmente residenti nel nostro Paese del diritto di eleggere e di essere eletti alle cariche locali, non solo non si risolve in una diminuzione di status e di potere dei cittadini, ma costituisce la condizione primaria per l'integrazione, utile e necessaria per la coesione sociale, la sicurezza, lo sviluppo e l'arricchimento generale delle nostre comunità.
      Il futuro ci prospetta città plurietniche e plurilinguistiche.
      In esse il diritto all'autogoverno, che comporta ricerca solidale del bene comune,
 

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deve essere riconosciuto agli abitanti che legano il loro destino alle sorti della città, a prescindere dalla nascita e dalla cittadinanza.
      A questi valori si ispira la presente proposta di legge costituzionale, poiché la dottrina prevalente ritiene che l'estensione agli stranieri del riconoscimento dei diritti propriamente politici non possa attuarsi con la semplice legge ordinaria.
      Gli articoli 1, 2, 4 e 5 trasferiscono nelle libertà fondamentali, che l'ordinamento riconosce a tutti (e non solo ai «cittadini»), i diritti di riunione e di associazione anche politica e il diritto di petizione alle Camere.
      L'articolo 3 riguarda il nesso, politicamente indissolubile per le ragioni espresse, fra elettorato attivo e passivo.
      Nella prospettiva di riconoscere pari diritti e dignità a tutti gli abitanti di un comune, di una provincia o di una regione, non ha evidentemente senso affermare la distinzione, pur tecnicamente possibile, fra elettorato attivo e passivo. La scissione, con la garanzia di elettorato attivo e la negazione del diritto ad essere eletti, sancirebbe una condizione di minorità dello straniero residente, in contrasto con la finalità di integrazione perseguita e con la fisionomia delle comunità plurinazionali, plurilinguistiche e plurietniche, che le nostre città rapidamente stanno acquisendo.
      Al riconoscimento del diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni regionali, provinciali, comunali e nelle altre elezioni locali a tutti coloro che sono residenti in Italia da oltre tre anni (secondo comma dell'articolo 48 della Costituzione, introdotto dall'articolo 3 della presente proposta di legge costituzionale) consegue l'esclusione del requisito della cittadinanza per l'accesso alle cariche elettive (terzo comma del medesimo articolo 48) e agli uffici pubblici (terzo comma dell'articolo 51 della Costituzione, introdotto dall'articolo 6).
      Le altre disposizioni, recanti modifiche all'articolo 54 sul dovere di adempiere alle funzioni pubbliche e all'articolo 75 in materia di referendum, completano la proposta di legge costituzionale.
      La prima norma è di semplice coordinamento.
      La seconda estende agli stranieri residenti il diritto a partecipare al referendum per le leggi in materia di autonomie locali.
      Onorevoli colleghi, non mi nascondo le difficoltà e le possibili resistenze culturali e politiche all'approvazione di questa significativa e radicale riforma costituzionale. Ritengo però che solo la forte assunzione, in tutta la comunità nazionale, dei princìpi di solidarietà e di progressiva uguaglianza delle condizioni di libertà garantisce ai cittadini, e soprattutto alle future generazioni, un avvenire di progresso nella pace e nella civile convivenza.
 

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